Uno dei principali errori che siamo portati a compiere consiste nel pensare che la felicità ci giunga dall’esterno; diventerò felice se lui/lei finalmente si accorgerà di me e mi amerà; diventerò felice se mi laureerò con 110; diventerò felice se farò quel viaggio in quella meta esotica di cui parlano tutti. Quello di cui voglio convincervi è che quella non può essere felicità, in quanto, se risultasse davvero legata alla presenza di un elemento esterno, cui è connaturato l’esser del tutto contingente, la stessa felicità risulterebbe del tutto momentanea; ne risulterebbe che:
- la felicità dipende dal fatto che ci succedano determinate cose 2) diventiamo felici in quanto prima non avevamo quelle cose, e soffrivamo di questa mancanza; mentre ora siamo felici in quanto ce l’abbiamo 3) ma se la felicità ci è data dal realizzarsi, dal conseguire, dall’appropriarsi di cose che ci mancavano, vediamo che quest’idea che ho proposto è autocontraddittoria: una volta che ho conseguito qualcosa, esso non mi interessa piu’, e dovrò andare alla ricerca di altre cose, ritrovandomi di nuovo nella spirale desiderio-conseguimento-noia-desiderio 4) da quanto detto, sembrerebbe che la felicità coincida anche con la sofferenza, in quanto, nel momento in cui conseguo qualcosa, ho un istante di felicità, dovuto all’ averla conseguita; ma nel momento stesso sono già stanco, perchè il mio desiderio di quella cosa piu’ non sussiste; e sarò sofferente a causa di un’altra cosa che mi manca.
L’errore sta nel percepirsi come esseri che mancano di qualcosa, che sarebbero di piu’ e meglio se avessero (sia in termini materiali, sia in termini di capacità personali) di piu’; se siamo carenti di qualcosa, e la maggior parte delle volte che si attiva in noi questo pensiero è dovuto al paragonarsi ad altri, vuol dire che non andiamo bene così come siamo; se non andiamo bene, di fatto non ci stimiamo abbastanza, ed andremo in giro per il mondo con la consapevolezza di non valere quanto dovremmo valere (in quanto usciamo sconfitti dal confronto con tizio o con caio).
Quello che voglio dire non è che in realtà andiamo benissimo come siamo, e non dobbiamo sforzarci di migliorare, di sviluppare le nostre capacità ecc; il mio scopo è mostrarvi che, quando proiettiamo l’immagine di noi nel futuro, e parlo di un’immagine in cui finalmente saremo belli, forti, ricchi, pieni di donne ecc, alla base vi è la mancanza di accettazione di quello che siamo hic et nunc: percepisco che non sono abbastanza, ma tramite un gioco di prestigio della mente, mi convinco che in futuro lo sarò, ed in qualche modo preservo il mio precario equilibrio psichico. Con buona evidenza non accettiamo il nostro nucleo profondo, che non è cambiabile, per quanto molti si sforzino di farcelo credere. Volendo utilizzare una immagine kierkergardiana, l’uomo che non si accetta, che non vuole esser se stesso, è totalmente ed irrimediabilmente disperato: è disperato perchè vuole una cosa impossibile: esser diverso da se stesso.
Ricapitolando: la felicità non può essere legata ad eventi esterni; trova certamente una base di condizioni oggettive sulle quali svilupparsi (le condizioni di cui parlavano i greci per il conseguimento dell’eudaimonia), ma sono condizioni (forse, neanche troppo a mio avviso) necessarie, certamente non sufficienti; non posso sperare in alcun modo che, se non vado bene per me stesso, e mi penso come un ometto insipido, stupido e gretto, poi, come d’incanto, a mo’ di principe azzurro (o di fata turchina), arriverà qualcuno che mi salverà dall’essere quel che sono, facendomi assurgere ad un rango superiore.
Il non accettarsi, il non voler vivere quello che siamo ora, fa si che non viviamo: si, non viviamo, ma siamo in attesa, di un futuro illusorio (e consolatorio) in cui finalmente poter vivere. Ma non esiste da vivere altro che il presente: devi vivere adesso, non rifugiarti in quello che è stato, o in quello che speri potrà essere. Guardatevi dentro, guardate le vostre meschinerie, il vostro essere invidiosi, gelosi, rabbiosi, il vostro essere stupidi ( e non è un atto d’accusa nei confronti del lettori: è un discorso generale in cui sono ovviamente incluso anche io): mettetevi in condizione di osservarvi, senza condannarvi; che sia una osservazione senza condanna; ma non rifugiatevi nella cecità, nel non voler guardare. Siete in grado di vivere con voi stessi così come siete, e non nell’illusione di essere (o poter essere) qualcos’altro? Se riuscirete ad accettarvi, accetterete anche gli altri; se accettate senza condannare il vostro essere invidiosi, accetterete anche il fatto che gli altri possano esserlo; il vostro diventerà uno sguardo comprensivo, perchè avrete capito cos’è l’essere umano; capire ed accettare se stessi è il primo passo per capire ed accettare gli altri; stare bene con se stessi, ugualmente, è il primo passo per stare bene anche con gli altri. Questa è la base per poter essere felici( ammesso che questo termine abbia un senso, io preferirei parlare di uno stato di calma, in cui siamo recettivi di quanto ci accade, e non piu’ cechi come quando siamo ostacolati dalla sofferenza)
Saluti